volte massicciamente, a una ideologia totalitaria ideologizzata, in specifiche condizioni socio-culturali, storiche, religiose (dove stato e chiesa non sono distinti)?
A questo punto, per spiegare la violenza distruttiva terroristica, se chiamiamo in causa la “pulsione di morte” con le sue difese, dobbiamo pensare che siano i meccanismi narcisistico-paranoidi basati sulla scissione, sulla idealizzazione, e sulla identificazione proiettiva (la proiezione del male dentro di noi, negli altri) i responsabili delle precondizioni intrapsichiche individuali e gruppali capaci di scatenare il fenomeno.
E, se chiamiamo in causa una pulsione presente in ogni uomo, dobbiamo ammettere la rapidità e la relativa facilità con cui tutti, in determinate condizioni, possono entrare o rientrare in una posizione schizo-paranoide, cioè venire afflitti da una persecutorietà tale , con tutto il corteo delle difese conseguenti, da diventare capaci di azioni di violenza distruttiva inimmaginabile.
( Nel senso che, come dice O. Kernberg (2003), potenzialmente la distruttività inconscia, da lieve a terribile, è presente in ognuno di noi. E viene attivata rapidamente quando incontriamo gruppi in preda a forti regressioni. ) (Amplificazione sociale della aggressività primitiva).
Pensiamo solo ai numerosissimi tedeschi “normali” che aderirono all’ideologia nazista grazie a una circolarità di cause: un leader affetto da narcisismo maligno, un’ideologia paranoide, un’efficiente burocrazia imbevuta della stessa ideologia paranoide, il controllo da parte dello stato delle forze armate, dei media, e dell’economia. In pochissimo tempo, l’applicazione ordinaria delle leggi, e ogni manifestazione di umana decenza vennero sconvolte nella vita di ogni giorno…
Se, invece, rinunciamo alla pulsione di morte, e, al suo posto, introduciamo il concetto di “umana fragilità”, di angoscia della caducità, di angoscia di quella alterità che è talmente straniera a noi da obbligarci a un confronto impossibile con tutto ciò che, per noi, non è rappresentabile ( < la ”non cosa”-“no-thing”- di W. Bion, che ha a che fare con l’intollerabile percezione dello scarto tra gli oggetti e la loro rappresentazione> (E. Gaburri, L. Ambrosiano, 2003) , allora, in questo caso, il terrorismo potrebbe essere visto come una “strategia”.
L’unica strategia possibile (infame, perché contro i civili) dei deboli contro i più forti. Deboli socialmente, spesso. Comunque deboli mentalmente, perché si tratta di persone che non riescono a mantenere o a raggiungere la possibilità di rappresentarsi i propri e altrui stati mentali, a tal punto da arrivare a non avere più coinvolgimento nell’infliggere tanta sofferenza.
(La deumanizzazione che, comunque, non è appannaggio del solo terrorismo).
Se poi pensiamo che sono molte le culture che hanno prodotto e producono terrorismo, anche quello suicida, dalla asiatica con le tigri Tamil, movimento indipendentista di stampo non religioso, alla nordamericana alimentata da ideologie apocalittiche sulla trasformazione violenta e imminente del mondo esistente (basta ricordare l’attentato di Oklahoma City, nel 1995, con più di centossessanta morti, dell’ambiente oscuro delle milizie dell’estrema destra) e cominciamo a interrogarci sul reciproco influsso tra individui, società, e cultura di appartenenza, nascono ulteriori problemi di comprensione del fenomeno.
Noi possiamo parlare con una certa sicurezza delle tappe di maturazione psichica individuale che derivano dalle relazioni intrapsichiche tra individuo e gruppo in determinate culture, presenti alle nostre latitudini.
Possiamo anche immaginare, per esempio, che il nostro terrorismo sia basato su un funzionamento mentale di individui e gruppi con disturbi di personalità narcisistica e borderline, o, addirittura, secondo G. Gabbard, di psicopatia antisociale, mentre risulta difficile applicare la stessa griglia interpretativa, le stesse categorie di riferimento, per altri fenomeni terroristici appartenenti a culture completamente diverse.
Addirittura, se guardiamo da vicino le storie dei singoli partecipanti alla brigata Baader Meinhof, a noi vicina, le analisi che definiscono i personaggi implicati come gravi narcisisti afflitti dalla vergogna-colpa post-nazista, o psicotici, o psicopatici, (tanto è vero che poi si sarebbero suicidati)