inconsce. E di difese patologiche speciali, diverse dai meccanismi di difesa nevrotici e psicotici, e più vicine ai meccanismi perversi.
(Tralascio molti altri autori: primo fra tutti, D. Meltzer, in <Stati sessuali della mente>, soprattutto negli scritti <Sulla Tirannia>, e < Terrore, persecuzione e paura> (1973) ).
Conosciamo dunque i meccanismi inconsci che potrebbero essere anche alla base di quella degenerazione della violenza distruttiva che chiamiamo terrorismo.
Oggi, lo psicoanalista cipriota V. Volkan, esperto di conflitti tra “grandi gruppi”, e studioso dei meccanismi attraverso cui l’identità individuale si iscrive all’interno dell’identità del gruppo di appartenenza in modo così esteso da essere, talvolta, condiviso da migliaia, milioni di uomini, sostiene che il “trauma scelto” è la chiave di volta di questa iscrizione.
Tale trauma consiste nella condivisione delle rappresentazioni mentali di un disastro, reale o immaginario, capitato per colpa di stranieri agli antenati di quel gruppo. Gli antenati, vittime di drammatiche perdite, reali o immaginarie, quindi afflitti da impotenza, vergogna, umiliazione, aspettano soltanto l’arrivo di un leader carismatico capace di scegliere il trauma giusto (“scelto”) per riaccendere nella popolazione, anche a distanza di secoli, le vecchie ferite. ( Pensiamo a Milosevic che, nel 1989, riesuma il corpo del principe Lazar morto nella battaglia del Kosovo cinquecento anni prima: le reliquie fatte circolare per un anno intero riaccendono il trauma “scelto” dei Serbi ).
Perciò, noi psicoanalisti dobbiamo solo applicare le nostre teorie di riferimento per capire le dinamiche di grandi e piccoli gruppi che arrivano alla violenza distruttiva, e, in particolare, al terrorismo !
Tenendo conto del fatto che la violenza distruttiva si trova, almeno potenzialmente, in un continuum presente dall’attivismo di stampo sociale, al fanatismo non violento, al terrorismo contro gli altri, al martirio nel caso del terrorismo suicida…
Ma la risposta del newyorkese Friedman, a proposito, suona come una staffilata: noi psicoanalisti conosciamo qualcosa del terrore attraverso la cura di certi pazienti gravi, e attraverso ciò che abbiamo imparato dalle dinamiche inconsce nei gruppi. Ma questo “qualcosa” ha a che vedere con la straordinariamente varia tipologia dei singoli terroristi, e dei gruppi terroristici esistenti ?
Prendiamo, ad esempio, l’ “asse psicologico” di base di cui parla Twemlow per spiegare la più disumana delle violenze distruttive: possiamo parlare dello stesso asse umiliazione-vergogna in ogni tipologia di terrorismo, da quello degli studenti americani che sparano facendo stragi nelle scuole, a quello dei movimenti terroristici indipendentisti nazionali? Si tratta di una violenza con le stesse coordinate psicosociali, dai Palestinesi, ai Baschi, agli Irlandesi?
Friedman provoca: <Che dire poi della vergogna di Andreas Baader, che sappiamo ricco frequentatore di negozi di lusso e locali alla moda?>
E l’elite giapponese di fisici, genetisti, ingegneri, e scienziati farmacologi, reclutati da Aum Shinry Kio? Nel senso che questa setta, che rilascia gas sarin nella metropolitana, nasce da una subcultura di nuove religioni, e ha le sue radici in una delle nazioni più industrializzate al mondo, il Giappone, ben lontana dalle condizioni sociali catastrofiche che normalmente generano umiliazione-vergogna.
Secondo Friedman, chiunque di noi potrebbe avere buoni motivi per sentirsi talmente umiliato, e pieno di vergogna, da essere autorizzato a entrare nella spirale della distruttività terroristica, quando incontra un gruppo e un leader paranoici, in un certo contesto storico: dipende soltanto dalla gravità della sua patologia narcisistica.
Potremmo dire, parafrasando Friedman, che noi psicoanalisti, ahimè facilmente preda del discorso sulla colpa, come a dire “empatici per forza”, ogni volta dobbiamo trovare le ragioni di cotanta distruttività nell’asse “umiliazione-vergogna”!
Riflettendo, mi pare che Friedman sia troppo pragmatico, con una visione troppo dall’esterno.
Al contempo, la sua è una visione che crea un ragionevole dubbio: possiamo davvero utilizzare i non moltissimi dati psicopatologici che la professione ci mette a disposizione attraverso la devianza di certi pazienti, per credere di capire il terrorismo?
Soprattutto, possiamo utilizzare dati che derivano dall’esperienza transfero-controtransferale, al di fuori della stanza di analisi, al di là dello studio delle dinamiche