Le distinzioni tra terrorismo statuale e non statuale, inoltre, diventano cosa davvero complicata quando nella storia incontriamo un’infinità di fatti terroristici in cui la linea di confine tra i due tipi di terrorismo è assolutamente labile.
Sappiamo che l’uso sistematico della violenza a scopi politici (“Terrore”) viene codificato da Robespierre durante la rivoluzione francese. Per poi diventare appannaggio delle grandi rivoluzioni del XX secolo, dalla rivoluzione russa di Lenin, alla cambogiana di Pol Pot, alla iraniana di Khomeini…
E il terrorismo suicida attuale? Ha origine statuale, o dal basso?
Per quanto riguarda gli Hezbollah libanesi (ricordiamo che nel 1983 una loro bomba umana uccide trecento ufficiali americani e francesi della forza multinazionale di polizia in Libano, durante la guerra con Israele) si può rispondere che l’origine è statuale, del governo iraniano, ma poi la lotta politica che si configura con il terrorismo, nel tempo, sembra essere sfuggita di mano a un chiaro indirizzo governativo…
In molti altri casi, l’origine appare chiaramente legata al “basso” (gruppi non governativi) . Ma quando indaghiamo ulteriormente, e veniamo per esempio a conoscere le varie fonti di provenienza dei finanziamenti al terrorismo, di nuovo, ci imbattiamo nella solita labile linea di confine . (Pensiamo soltanto alle campagne di sostegno in Arabia Saudita, che raccolgono centinaia di milioni di dollari per l’Intifada (Al Quds) ).
Seguiamo, adesso, il filo rosso sul terrorismo in due articoli apparsi, dopo l’estate 2005, sulla rivista “International Journal of Psychoanalysis” (Vol. 86, parte IV).
L’autore del primo articolo è Stuart Twemlow, psicoanalista texano di Houston. L’autore del secondo articolo è Lawrence Friedman, di New York., che risponde a Twemlow in modo piuttosto veemente.
Su un punto entrambi gli autori sono d’accordo, nel sostenere che ogni fenomeno terroristico può essere analizzato solo in relazione al contesto storico e geopolitico in cui si forma. ( Non ha senso definirlo, al di fuori ).
Alla domanda sulla possibilità, da parte della Psicoanalisi , di interpretare il terrorismo, lo psicoanalista di Houston S. Twemlow risponde affermativamente, mentre L. Friedman negativamente.
In effetti, noi psicoanalisti accumuliamo un buon bagaglio di esperienza nelle nostre stanze d’analisi e nelle istituzioni, con pazienti gravi border, e psicotici paranoidi. Pazienti con un pensiero concreto, e diniego onnipotente, invasi da una rabbia perenne di grande intensità.
Noi psicoanalisti conosciamo bene il “terrore” dal gioco delle identificazioni e controidentificazioni proiettive di parti terroristiche-terrorizzate (continuamente attive durante l’analisi nella coppia analitica al lavoro).
E abbiamo la conoscenza di una vasta letteratura a proposito delle dinamiche psichiche inconsce nei gruppi.
Penso, per esempio, a Elliot Jaques che descrive come le società si strutturino sulla base di difese psichiche primitive, quali la proiezione, soprattutto l’identificazione proiettiva, e l’introiezione. Difese che sono utilizzate per far fronte a stati emotivi altrimenti insopportabili: ognuno di noi sa bene cos’è il terrore di andare a pezzi emotivamente, in una sorta di catastrofe personale; cos’è la rabbia potente al punto da desiderare di fare esplodere qualcosa o qualcuno… (Ansie primordiali paranoidi e depressive).
Penso a Wilfred Bion, che parla delle organizzazioni gruppali come depositi di parti di leaders e di membri appartenenti al gruppo, parti che vengono denegate e proiettate, e inducono il gruppo ad agire, e fanno agire al capo le fantasie onnipotenti del gruppo… In Bion, dunque, è il gruppo attraversato da emozioni allo stato nascente (in “assunto di base”) a creare il suo capo.
E penso a Giuseppe Di Chiara che, nel suo testo <Sindromi psicosociali> (1999), spiega come le collettività diventino facilmente preda di angosce consistenti e condivise, le cui origini reali sono