mantenere concettualmente la scissione fittizia tra menti fanatico-totalitarie, e menti democratiche. Misconoscendo il continuum esistente tra stati fanatici e stati democratici all’interno della mente umana, e nel mondo esterno. Continuum che ha estremi fortemente interconnessi: per esempio, gli eventi terroristici attuali, e certi investimenti, sostegni, finanziamenti, dei governi democratici. Gli eventi terroristici attuali, e la manipolazione delle informazioni che spesso si sganciano da un giudizio tecnico di verosimiglianza e congruità dei fatti, da parte dei governi democratici. Gli eventi terroristici attuali, e la manipolazione e manutenzione della paura collettiva da parte dei governi democratici…
Il fondamentalismo islamico, visto così, potrebbe essere , oltre che un vero tentativo di ritorno alle radici ( il califfato) contro la modernità che invade e destabilizza, un moderno tentativo di adoperarlo, come una sorta di modernissimo contropotere.
E lo studio delle strategie del terrorismo diventa, così, la vera novità, per cui servirebbe un lavoro a parte.
Nel senso che il terrorismo sta riuscendo a seminare terrore a livello globale, anche perché è comandato da realtà che, pur essendo diffuse e polimorfe, sembrano ricondurre sempre a un preciso disegno centrale, e, mentre mostrano apparentemente un carattere spontaneistico, ogni volta rivelano una gerarchia precisa degli obiettivi. Attraverso lo spargimento del terrore che dilaga grazie al sistema mediatico del nemico, che funziona da straordinaria cassa di risonanza.
Noi, tra l’altro, sappiamo che quanto più una strategia destabilizza psichicamente, tanto più mobilita aree di scotomizzazione, o, viceversa, di partecipazione radicale (tutto il problema delle aree traumatiche) con l’ovvio risultato di rinforzare il sentimento di insicurezza, fino a un vero e proprio terrore.
Sembra, a posteriori, frutto di una precisa tecnica di questa strategia, la capacità di alimentarsi, ogni volta, attraverso l’inscindibilità del binomio terroristi-terrorizzati, binomio che mantiene in vita un mostro a cento teste, che sparge odio e colpa, per la consapevole e inconsapevole collusione reciproca.
Concludiamo con l’ultima domanda posta dall’IPA, sulla nostra possibilità, in quanto psicoanalisti, di fare davvero qualcosa.
Volkan risponde (nel suo articolo <The tree Model: un approccio psicoanalitico alla diplomazia non ufficiale>) che si può fare qualcosa, utilizzando piccoli gruppi di lavoro che insegnano alla grande diplomazia il “perdono” come strategia politica di negoziazione, con l’effetto di diluire i sentimenti di vergogna e umiliazione.
( Ne possiamo vedere i primi risultati nel processo di pacificazione, in Sud Africa…) (Volkan si sta adoperando anche in Serbia e in Cecenia…)
Naturalmente non crediamo di poter trovare il collega newyorkese Friedman d’accordo sull’uso del perdono in diplomazia.
Nel cercare di rispondere alle domande poste dai colleghi dell’IPA sul fenomeno terrorismo, ci siamo trovati di fronte a risposte solo parzialmente possibili, e sempre incerte, sempre comunque aperte.
Adesso potremmo noi provare a chiedere all’IPA di formulare un’altra domanda che, forse, cambierebbe il senso delle domande precedenti: in quanto psicoanalisti, siamo capaci di porci all’interno di quella inevitabile tragedia umana che si chiama distruttività, innata e acquisita, individuale e collettiva?
E, per quanto grande sia l’orrore di fronte alla barbarie dei gesti terroristici, possiamo diventare capaci dell’unico gesto psicoanalitico dotato di significatività, che consiste proprio nel non porci solo come interpreti esterni?