Neuroscienze e psicoanalisi


Abstract

Premessa: Il tema di questo articolo è trattato più diffusamente nel libro “Il Corpo e il Senso. Dopo la Psicosomatica” (Claudia Peregrini, Amazon 2019, ed. cartacea e internet. Traduz. inglese)

Breve storia

Il dialogo tra neuroscienze e psicoanalisi si concretizza nel 2000 a Londra in occasione del primo congresso internazionale. Tra i membri fondatori della "Società Internazionale di neuropsicoanalisi" ci sono grandi nomi. Neurofisiologi del calibro di Antonio Damasio, Eric Kandel, Gerald Edelman, Helen S. Mayberg, Jaak Panksepp, Joseph LeDoux, e psicoanalisti importanti come Charles Brenner e André Green.
L’obiettivo dichiarato della nuova disciplina scientifica è individuare le aree cerebrali che operano funzionalmente in relazione ai fenomeni psicodinamici studiati da Freud.
Antonio Damasio (in un intervento riportato, se non ricordo male, in Spiweb “Prendersela con la neuro psicoanalisi: un problema mal posto”) sostiene che esiste una naturale alleanza tra neuroscienze e psicoanalisi.
La frase evoca alcune sensazioni confuse e apre una domanda non da poco.

 

Cosa vuol dire naturale alleanza?

Eric Kandel, nel fortunatissimo libro “L’età dell’Inconscio” (Cortina, 2012), allargando l’idea di alleanza a più discipline, si augura che artisti, storici dell’arte, fisici, filosofi, psicologi, neuroscienziati, riprendano a parlare veramente tra loro, anche se non sarà possibile ripetere l’esperienza straordinaria dei salotti viennesi della scrittrice, critica letteraria e salonnière Berta Zuckerkandl.

(Provo a rispondere alla domanda, gradualmente.)

Perchè non cercare di ripetere gli incontri viennesi? Che meraviglia! A patto di riuscire a impostare il discorso fuori da ogni conformismo e da ogni forma di opportunismo.

Si potrà, continua Kandel, parlare tra studiosi diversi nel contesto di nuovi centri interdisciplinari accademici, presso le università nel mondo!
Tanto più che la neurobiologia ha scoperto e confermato in molti esperimenti le nostre pulsioni istintuali, erotiche e aggressive, inconsce, e ha chiarito le strutture delle difese che le nascondono!

Siamo autorizzati dunque a sognare lo stesso sogno “dell’unità del sapere” dei filosofi del circolo di Vienna e delle origini della psicoanalisi?

Pensiamo alla rivista Imago, voluta da Freud per colmare il divario tra psicoanalisi e arte, pensiamo al suo redattore, Otto Rank, agli studi sulla psiche degli artisti…

Tanto più che la biologia del cervello, dice Kandel (ibidem, p. 497), non nega in alcun modo la ricchezza e la complessità del pensiero: “Piuttosto, su una componente del processo mentale per volta, il processo di riduzione può espandere la nostra visione e permetterci di percepire improvvise imprevedibili relazioni tra fenomeni biologici e
psicologici”.

Nobel per la medicina, Kandel ha scoperto che, all’interno del neurone sensoriale, si attiva un gene, detto CREB, che determina la sintesi di proteine. Questa sintesi modifica in modo più o meno persistente la sinapsi generando le due possibili forme della memoria: una transitoria a breve termine e una duratura o a lungo termine. Ciò confermerebbe la teoria che la memoria abbia una spiegazione organica.

Di nuovo, la domanda:
di quali improvvise imprevedibili relazioni tra fenomeni biologici e psicologici si tratta?
Un’obiezione di base allo scritto di Kandel:
Si può appiattire lo psichismo sul calco apparentemente chiaro del corporeo letto dalle
Neuroscienze?

Davanti alle operazioni di neuroscienziati della grandezza di Kandel, non si può non essere trascinati almeno per un momento dall’entusiasmo per certi aspetti del loro lavoro, per la ricchezza dei riferimenti e le prospettive straordinariamente ottimistiche.

Ma non si può non rimanere, anche, profondamente perplessi.

L’apparente compiutezza e l’efficacia di un certo argomentare neuropsicoanalitico stupisce, infervora, ma, senza nulla togliere alla serietà e alla novità delle ricerche, sorge spontanea una domanda.

Innanzitutto, com’è possibile dedurre lo psichico dal somatico?
E poi: come si fa a giustapporre lo psichico al somatico?
Non ci si rende conto che si tratta una giustapposizione descrittiva, che parte da ciò che dovrebbe dimostrare?

Non solo perché il problema della deduzione dello psichico dal somatico sarebbe esclusivamente un problema dello psichismo (nel caso, il somatico non sembra porsi il problema della propria deduzione).
Ma anche perché non si vede come lo psichico possa allocarsi dalle parti di qualcosa che è semplicemente corporeo.

Quali i rapporti in questo caso con il corporeo?

Possiamo introdurre termini nuovi quanto vogliamo, possiamo parlare di processi, di sistemi, (per esempio, i sistemi simbolici, verbali e non verbali, e i subsimbolici, all’interno del raffinato modello del “Codice multiplo”, di Wilma Bucci).
Siamo liberi di scoprire immagini a mo’ di ponte tra le strutture neurologiche del proto-Sé e la coscienza…

Ma credo proprio che così facendo il problema di fondo rimanga intatto.

Anche se non si nominano più mente e corpo, come Wilma Bucci, non si può risolvere così, in termini esaustivi, il salto dal subsimbolico al simbolico, perché il salto è l’effetto collaterale dei nostri modi di scrivere l’esperienza, non qualcosa che esiste di per sė.

Non si può non accorgersi che la ‘collocazione’, seppur frutto di una mole di ricerche mondialmente riconosciute, è sempre e comunque una giustapposizione descrittiva, come dicevo, che presuppone ciò che dovrebbe dimostrare.

La collocazione anatomica inoltre riconduce lo psichismo a una forma di scrittura, cioè al corpo scritto, inscritto, sovrascritto, delle neuroscienze. Ossia, a un corpo fattosi scrittura e ridotto ad essa. Con l’inevitabile conseguenza di appiattire ogni psichismo sul calco apparentemente chiaro del corporeo letto dalla medicina.
E l’inconscio, confuso con l’inconsapevole, fa la solita fine, finisce come retrobottega ella coscienza.

(A. Bocchiola, terzo articolo nel sito ).
(Traduzione inglese).

 

Andiamo avanti nella storia della neuropsicoanalisi

La neuropsicoanalisi, soprattutto negli ultimi dieci, quindici anni, si è enormemente
sviluppata grazie all’uso iperspecialistico di raffinati strumenti tecnici, gli strumenti
esosomatici, come li chiama il filosofo Carlo Sini.
Si tratta di mezzi specifici. Per esempio, le tecniche di diagnostica per immagini quali la tomografia a emissione di fotone singolo , che permette di "visualizzare" il funzionamento del cervello anche sotto l'effetto di farmaci o di altri tipi di stimolazione.

 

Una prima osservazione e non poche perplessità

Seguendo la lezione di Carlo Sini, ci rendiamo conto che gli oggetti trovati/costruiti dagli scienziati, per esempio il funzionamento delle varie aree cerebrali, non sono affatto l’equivalente di quello che c’è nel mondo, bensì il risultato teorico di ciò che con la scienza si è fatto e prodotto nel mondo.
Mappe sempre più utili e precise che orientano il pensiero e l’azione. Non è che se noi guardiamo una tomografia, vediamo veramente come funzionano le aree del cervello intese come cose concrete fuori da noi!

 

Tutto sta allora in chi legge, in come orienta il suo pensiero.

Tutto sta nel non confondere le cose e soprattutto nel non confonderle con le parole.
Perché noi tutti ci siamo progressivamente assuefatti all’uso specialistico degli strumenti tecnici della scienza, un uso che progressivamente ha cancellato e cancella la consapevolezza dell’operazione tecnica impiegata, con il risultato dello slittamento di senso circa la verità del suo oggetto. Uno slittamento di senso che era già in cammino da quando gli esseri umani, grazie allo strumenti del linguaggio, sono stati fortemente indotti a confondere il lavoro della parola con la realtà delle cose.

 

La pratica scientifica moderna costituisce in proposito l’ultimo grandioso slittamento di
senso.

Sono infatti le particolarità tecniche e materiali dello strumento esosomatico, che le scienze della natura di volta in volta usano, a produrre la corrispettiva visione scientifica delle cose, per esempio il famoso dato sensoriale…
Da questo meraviglioso e possente lavoro discende il famoso patrimonio di conoscenze e modelli che caratterizzano i procedimenti della scienza contemporanea.
La scienza che da vita alla costruzione di un abito universale del discorso “oggettivo”, uno sterminato processo di costruzione della verità scientifica del mondo.
Ricordarlo può significare una trasformazione dello scienziato e di ogni essere umano in un consapevole grafista (direbbe Charles Sanders Peirce, matematico, filosofo e semiologo statunitense) della “storia della conoscenza”…

 

Daccapo

Ci chiedevamo prima a quali improbabili “improvvise relazioni tra cervello e pensiero”
alludono i neuroscienziati come Kandel.

Kandel e altri studiosi pensano che sarebbe interessante non tanto l’idea di un linguaggio unificato (ogni disciplina dovrebbe mantenere i propri obiettivi ineluttabilmente diversi e logicamente separati), quanto l‘idea di “consilience”, il tentativo di aprire una discussione tra aree ristrette di conoscenza.

 

Un esempio di consilience secondo la neuropsicoanalisi

Freud, come sappiamo, ha ampiamente sottolineato che gran parte della nostra vita psichica é inconscia e si rivela solo attraverso il punto di vista limitato della coscienza.
La recente riflessione su diversi tipi di funzionamento inconscio è andata ben oltre Freud, ma spesso in modi già anticipati da lui. (Queste sono sempre le parole dei neuroscienziati).

Una nuova comprensione del ruolo dei processi mentali inconsci (nei nostri processi decisionali) sarebbe stata ottenuta da una serie ormai classica di esperimenti sulla coscienza condotti da Benjamin Libet (presso l’università della California a San Francisco), definiti, dalla filosofa della scienza Susan Blackmore, “straordinari”.
Dimostrano che un’azione è determinata nel cervello inconscio prima di essere scelta
consapevolmente.

Queste e molte altre ricerche neuroscientifiche suggeriscono così che il nostro sentimento di volere è solo un’illusione, una razionalizzazione ex post di un processo inconscio.

Libet ipotizza infatti che il processo di avvio di un’azione volontaria avviene rapidamente in un’area inconscia del cervello, ma poco prima che l’azione sia avviata, la coscienza, reclutata sempre più lentamente, esercita, in modo top down, un’approvazione o un veto all’azione. L’esperienza cosciente si costruisce piano, richiede centinaia di millisecondi per iniziare un’azione…
Libet, attraverso la registrazione elettrica del “potenziale di preparazione”, dimostra così che, osservando semplicemente l’attività elettrica del cervello di una persona, si può prevedere cosa farà, ben prima che questa persona sia effettivamente consapevole di aver deciso di compiere la sua azione.

 

Ancora i neuroscienziati

Antonio Damasio parla dell’aspetto soggettivo della coscienza, chiamandolo “processo del Sè”. In questo processo, dotati del senso di noi stessi, noi costruiamo immagini degli stati del nostro corpo e proviamo emozioni (consce) rispetto a questi stati. La nostra capacità cosciente di riferire un’esperienza percettiva deriva dall’attività sincronizzata nella corteccia cerebrale, che emerge un po’ di tempo dopo la presentazione di uno stimolo, che viene poi diffuso globalmente ad aree critiche della corteccia prefrontale e parietale...
È questa diffusione che esperiamo come uno stato cosciente di percezione.

Proprio come ha scoperto Libet, la nostra volontà di eseguire un movimento inizia nell’inconscio!, esattamente come avviene in tutti i processi sensoriali, tra cui la visione.

 

E ancora…

Grazie alla risonanza magnetica funzionale, Stanislas Dehaene, un neuroscienziato
cognitivo francese, ha scoperto che la consapevolezza cosciente (si, così la chiama
Kandel!!!) di un’immagine emerge relativamente tardi nel corso del processo visivo, da un terzo a mezzo secondo dopo l’inizio della elaborazione visiva. Durante i primi 200 millisecondi di elaborazione visiva, l’osservato nega di aver visto alcuno stimolo. Ma, non appena la visione varca la soglia della coscienza, avviene un’esplosione di attività neuronale simultanea in un’ampia e diffusa rete di aree cerebrali.

È probabile, concludono i neuroscienziati che si occupano di neuropsicoanalisi, che, come aveva previsto Freud, i processi inconsci siano alla base di quasi ogni aspetto della nostra vita cosciente, compresi la percezione, la creazione e l’apprezzamento di un’opera d’arte…

Ci sono fior di risonanze, è vero, tra momenti dei due discorsi, il neuroscientico e lo psicoanalitico. Ma i due discorsi sono radicalmente, logicamente diversi. Non si possono accorpare né sovrapporre né tanto meno uno può giustificare l’altro!

E la neuropsicoanalisi specifica che il pensiero inconscio opera botton-up, non gerarchicamente. Comprende un vasto sistema di reti cerebrali specializzate e autonome le quali sono in grado di trattare un certo numero di processi, e perciò può consentire una maggiore flessibilità nella ricerca di nuove combinazioni e permutazioni di idee.
Mentre il pensiero cosciente opera top-down, è guidato da aspettative e modelli interni, è gerarchico, ecc ecc

Alcuni neuroscienziati affermano una sorta di identità assoluta tra oggetti per loro natura diversi.
Kernberg scrive abitualmente che gli affetti sono strutture neurobiologiche. (È solo un modo di dire o viene creduto per davvero?)

 

Una seconda osservazione e di nuovo non poche perplessità

Anche se immaginiamo che mente corpo (con trattino o senza trattino, con “e” o senza “e”) siano sostanza, dobbiamo pur convenire che i dati neuropsicoanalitici derivano da letture. Cioè dai nostri modi di descrivere l’esperienza con certe lingue specialistiche, attraverso le nostre teorie, i nostri strumenti, in un preciso momento storico.

Non si capisce quindi assolutamente come all’interno di due lingue, la neuroscientifica e la psicoanalitica, che sono solo sistemi esplicativi diversi, autonomi, paralleli, i concetti neuroscientifici possano fungere da tabulato veridico del funzionamento psichico spiegato dalla psicoanalisi.

Inoltre, essendo ormai noto da tempo che la “causalità” nelle scienze è tramontata, e si è trasformata in una regolarità empirica, possiamo dire una volta per tutte che non è il cervello, il corpo, a determinare, come base, i processi mentali (non ha senso sostenere che il pensiero inconscio si basa tout court su un vasto sistema di reti cerebrali ecc ecc).
Siamo noi a registrare concomitanze tra mente e corpo, secondo una legge statistico-probabilistica!

Andiamo avanti
Il problema del realismo

Se poi iniziamo a riflettere sul fatto che il linguaggio psicoanalitico è solo una traduzione e una interpretazione e quindi non è che esistano per davvero cose in sė come la libido, il sogno, le auto rappresentazioni oniriche…, allora, continuare a credere che il linguaggio alluda alla realtà, dovrebbe cominciare ad apparire fortemente pre-logico, o comunque molto ingenuo.

Se andiamo oltre e ci mettiamo a ragionare su quelle che una volta si chiamavano scienze esatte, ci rendiamo conto che anch’esse sono linguaggi altrettanto immaginifici.
Prendiamo la medicina.
Parla di eventi (dice l’esperienza eveniente) dentro la sua pratica di parola, cioè misura, costruisce, traduce nei suoi segni. Per esempio, i segni dell’elettroencefalogramma, l’elettrocardiogramma, le RX, le TAC, le Risonanze Magnetiche…

 

Un secondo dualismo

“Nel dibattito corrente si assume apoditticamente che esistano dei corpi, ovviamente
biologici e delle menti, ovviamente psicologiche. Questi corpi e queste menti esisterebbero realmente, sarebbero cose del mondo, degli enti, in sé e per sé, del tutto indipendenti dalle pratiche di scrittura scientifiche che li indagano (grossolanamente, neuroscienze e psicologia). Menti e corpi sarebbero insomma dei fatti.
Il dibattito su mente e corpo condotto così è dunque inficiato da un secondo dualismo, quello che oppone le pratiche di scrittura scientifiche ai suoi oggetti corrispondenti.
E correlato di questa opposizione è il modello ingenuo di verità come corrispondenza, ossia come adeguazione della parola (la dottrina scientifica) alla cosa (realtà).”
(A. Bocchiola, articolo).

Andiamo avanti nella storia della neuropsicoanalisi
La rivalutazione della Psicoanalisi fatta dalle Neuroscienze
La centralità delle Emozioni “confermata” dalle ricerche neuroscientifiche

Più di centoventi anni fa, W. James, medico, psicologo e filosofo statunitense di origini irlandesi, scriveva in Principi di psicologia (1890) che, se non esistessero gli stati del corpo successivi alla percezione, percepire rimarrebbe un fatterello di stampo puramente 'cognitivo', freddo, pallido, incolore. Se un oggetto venisse solo e semplicemente percepito, -se non si trasformasse in qualcosa di sentito emozionalmente- per noi non sarebbe quasi nulla.

James ė il grande scienziato che, ormai anziano, ascoltando le conferenze di Freud all'università di Clark, in America, ebbe a dirgli: Il futuro della psicologia è nelle sue mani!

Oggi, un neuroscienziato altrettanto importante, Antonio Damasio, pensa che le intuizioni di James sulla mente umana siano talmente sorprendenti da essere paragonabili a quelle di Shakespeare e di Freud.

James spiega il modo in cui il nostro corpo risponde a un oggetto o a un evento emotivamente carico, per esempio, la paura. Dapprima nel corpo succede un cambiamento inconsapevole: si modifica il sistema nervoso autonomo con la sua regolazione, aumentano la frequenza cardiaca, la pressione arteriosa, la sudorazione ecc.; successivamente la corteccia cerebrale riconosce (diventiamo consapevoli) i nuovi stati corporei. Non è solo il cervello a comunicare con il corpo, cervello e corpo comunicano nei due sensi.

Mentre allora si credeva che fosse il feedback della risposta del corpo allo stimolo a generare la sensazione e il feedback al cervello a dare conto di come ci sentiamo in una certa situazione (lo stimolo dà la risposta corporea, la quale genera il feedback, che è responsabile dell'emozione), oggi gli scienziati ipotizzano che l'emozione venga innescata simultaneamente sia dalla valutazione cognitiva dello stimolo sia dalla specifica risposta corporea, autonoma e viscerale.

Significa che la valutazione cognitiva non è basata sulla risposta corporea specifica, perché sono i due fatti insieme, o quasi insieme, valutazione (mentale) e risposta (corporea), a generare l'emozione.

È grazie al fatto di provare sentimenti che sappiamo chi siamo, e questo è indubbio per tutti noi. E questo è il nucleo centrale di ciò che chiamiamo intelligenza emotiva, che è prima di tutto la capacità di accedere alla propria vita affettiva, in secondo luogo, è l'intelligenza interpersonale, cioè la capacità di leggere (un po', non illudiamoci!) gli stati d'animo, le intenzioni e i desideri degli altri.

(Alla luce del nostro modello teorico, invece, tutta la storia dell’empatia e dei neuroni specchio andrebbe forse rivista!).

Il nucleo emotivo-affettivo, ciò che sentiamo, è strettamente legato al metabolismo corporeo e all'esperienza, anche quando non ne siamo consapevoli.

 

Un’osservazione

Non ci accorgiamo che la fenditura tra “cose” (oggetti della ricerca), per esempio il nucleo emotivo affettivo e il metabolismo corporeo (così come la fenditura tra corpi e menti e ambiente), avviene proprio per effetto della lingua che usiamo?
L’intreccio tra emozioni, affetti e metabolismo corporeo esiste dall’inizio!
Non si tratta di un intreccio per giustapposizione di cose distinte, che si presuppongono esistere di per sé.

Allora, non pensiamoli più come base uno dell’altro, né come fatti corrispondenti, ma come equivalenze.
D’accordo, suona meno facile, quasi contro intuitivo all’inizio, (rispetto alla tradizione e al discorso scientifico della neuro psicoanalisi).
Se ci pensiamo bene, però, piano piano cambiamo parere: mente e corpo sono quasi la stessa “cosa” , intendendo per “cosa”, l’esperienza eveniente. Sono una “cosa” quasi identica, solo letta con due lingue diverse.
Equivalenza non vuol dire corrispondenza.

Le affermazioni degli scienziati rimangono comunque di importanza fondamentale e hanno conseguenze pratiche di utilità assoluta, se si tiene ben presente che le loro sono ricerche su parti divise, quindi parti deprivate di ogni senso, morte.

Lo spiega bene Mauro Mocch, nel suo Commento ai tre articoli iniziali.

Se lo scienziato, dice Mocchi, non lasciasse fuori dalla porta del laboratorio il senso di quello che fa, non sarebbe quello che è, un bravo scienziato. Sua, infatti, è l’attività del dividere, “la potenza più mirabile e più grande, anzi, la potenza assoluta” , perché le parti divise sono realmente tali, deprivate di ogni senso, morte. Fare logica, analizzare, è tenere fermo il “mortuum” ; è questo che richiede “la potenza più mirabile è più grande”

È proprio grazie a questo dividersi (ecco la sorprendente conclusione di Hegel), che il determinato, il singolo, ciascun sé, ottiene una sua distinta libertà, gli opposti formano un tutto, il sapere si capovolge nel mistero.

Il nostro modello

Il nostro modello, come ormai risulta chiaro, è molto diverso dal modello che si occupa di mente e corpo (parola e cosa) uniti, da dividere, per poi doverli riunire secondo uno schema monistico/ dualista/monistico, come in un gioco di specchi all’infinito.

Il nostro modello ha come pittogramma il nastro di Möbius.

Abbandoniamo dunque ogni monismo/dualismo perché:

come in una stanza degli specchi, nella scena manifesta del mind-body problem, monismo e dualismo si rimbalzano l’uno all’altro senza requie e senza la possibilità di risolvere l’impasse che producono.
Perché, se procediamo dualisticamente, non riusciremo a reperire un punto di passaggio dall’uno all’altro se non slittando nel monismo, il che significa ridurre il corpo alla mente o viceversa. Cosi facendo, ci troveremmo a dover spiegare anche come l’ordine del significato si elevi dal corpo della materia. Ed eccoci dunque magicamente tornati al dualismo…

 

Approdiamo al nastro di Möbius

dove il punto limite (è sempre Mauro Mocchi a commentare, al solito link), la soglia in cui passa da esterno (leggi anche corpo) a interno (mente), da giallo a arancio e viceversa, è e non può che essere nascosta, barrata dall’incrocio tra i due lembi del nastro.

In una bandierina rossa e verde, chiedeva Peirce, la linea che separa i due colori è rossa o verde?

La risposta è in tutti gli “o” del sillogismo disgiuntivo, nel “sive” tra Dio e Natura, nella pratica della “diairesis”, (tecnica divisoria), in cui contano si le parti divise, gli accidenti su cui si appunta lo sguardo della scienza, ma prima ancora conta il gesto del dividere, il fatto che una divisione tra terra e cielo avvenga. Conta che tutto faccia capo a un soggetto, a una sostanza, a un sé.

Una sostanza dipinta al modo del Cezanne ripensato da Merleau-Ponty, come confine vibratile, bilico tra i colori della terra e del cielo. Perché un limite c’è.
E saperlo è patrimonio etico e responsabilità biopolitica dell’umanità contemporanea.

Ritorniamo un momento al M/B problem e a un modo (agnostico) di affrontarlo, da parte di una certa neuropsicoanalisi

(Per vedere meglio la diversità tra il loro modello e il nostro)

Mark Solms e Oliver Turnbull, due pionieri nel campo della neuropsicoanalisi, nel loro famoso libro “Il cervello e il mondo interno” (Cortina, 2004) raccontano come sia possibile integrare le intuizioni della neuropsicologia con quelle della psicoanalisi, conducendo a un approccio interdisciplinare e permettendo di avvicinarsi alla questione più antica e controversa tra tutte:

la misteriosa relazione tra il corpo e la mente.

Solms e Turnbull: "Nella scienza, usualmente, due posizioni antitetiche vengono poste a confronto per controllare sperimentalmente quale delle due sia quella corretta". Ciò nonostante, non tutte le proposizioni sono controllabili.

Per esempio, come è possibile controllare la proposizione: "Dio esiste"? Per quanto possiamo essere riluttanti ad ammetterlo, le ipotesi controllabili che gli uomini di scienza usano sono inquadrate in serie di proposizioni di portata più ampia, che sono intrinsecamente non controllabili. Questi assunti di base definiscono la concezione del mondo (ovvero, la Weltanschaung) che uno scienziato abbraccia nel corso del suo operato; ora, è noto che una concezione del mondo non può essere soggetta a controllo sperimentale. La scienza si limita a rispondere a domande che possono essere formulate entro una particolare concezione del mondo; la scienza, però, non è in grado di controllare la concezione del mondo, in quanto tale. Non è stato ancora definitivamente stabilito se le diverse posizioni filosofiche sul problema mente-corpo costituiscano effettivamente delle "concezioni del mondo" nel senso appena descritto, oppure se un giorno (magari anche molto vicino) queste ipotesi saranno suscettibili di controllo scientifico. Noi riteniamo che la natura della relazione tra cervello e mente (si potrebbe dire, tra corpo e anima) non possa essere soggetta a esame scientifico. Asserzioni come "Il corpo e l'anima sono la stessa cosa" (la posizione monistica) o come "L'anima in realtà non esiste" (la posizione materialistica) non sono, a nostro avviso, enunciati scientificamente controllabili: sono infatti dello stesso tipo dell'enunciato, "Dio esiste". Crediamo che tutto quello che gli scienziati possano fare sia assicurarsi di essere consapevoli della concezione del mondo che hanno abbracciato, poiché gli assunti alla base di tale loro concezione determineranno le domande empiriche che essi si porranno, così come il loro modo di interpretare i risultati ottenuti." (Ibidem, pp. 62-63)

Le tesi neuropsicoanalitiche ad oggi sono moltissime.

Mark Solms, per esempio, monista, parla di mente e corpo come appearances, apparenze che rivestono l’unica vera sostanza: l’energia.

Una nota critica

Il dilemma vero sta nel fatto che il problema della “misteriosa relazione mente corpo”, posto come lo pone la neuropsicoanalisi, non esiste.

Nel senso che tutto il dibattito sul mente corpo, nella misura in cui non muove da una decontrazione genealogica della propria questione, è condannato all’irrilevanza e a una eterna petitio principi.

Questo, nonostante la fama della neuropsicoanalisi, l’importanza dei ricercatori, la ricchezza dei mezzi impiegati e la quantità e qualità dei risultati ottenuti, gli avanzamenti nelle proposte e nelle applicazioni cliniche.

Per esempio, Mark Solms, coordinatore delle iniziative riguardanti la ricerca per l’IPA, qualche anno fa affermava che non sono altre discipline a costituire una specie di “corte d’appello” per la nostra disciplina. Come sembravano essere all’inizio le neuroscienze per la psicoanalisi. Importante è la lettura che noi psicoanalisti facciamo dei dati che possono essere ricavati da altre discipline. La lettura di qualunque dato che deriva da altre discipline, inoltre, dovrà essere verificata nella clinica.

Bel palleggio di potere!

In questa operazione neuropsicoanalitica ci sono incredibili ingenuità.

Per esempio il modello di verità come corrispondenza, ossia come adeguazione della
parola (la dottrina scientifica) alla cosa (realtà). Mente e corpo sarebbero insomma dei
fatti: tra loro ci sarebbero delle corrispondenze.

Per di più, sappiamo che l’oggetto della psicoanalisi, oltre naturalmente l’inconscio dinamico, rimosso, è l’inconscio strutturale, visto come “oggetto infinito” già da Freud nel Compendio (nel sito e nel libro Il corpo e il Senso, dopo la Psicosomatica ); visto da Bion, come O; da Matte Blanco come inconsci infiniti; da Lacan…

Questo inconscio della tradizione freudiana, lontano da essere il retrobottega della coscienza, non è l’inconsapevole delle neuroscienze, incastonato in qualche luogo anatomico!

È appunto un oggetto infinito, non nel senso banale di ineffabile o di “finito sterminato”. Bensì nel senso matematico di limite.

È proprio ciò che non permette, fa da inciampo, alla psiche (e alla psicologia) e al cervello (e alle neuroscienze) di estendere il loro dominio.

Ed è solo grazie a questo inciampo che la parola e il pensiero possono avere senso.

Non è che il nostro pensiero vive in difficoltà perché non riusciamo a ritornare all’unità
indivisibile, come sostiene la metafisica occidentale. Il nostro pensiero vive in difficoltà, annaspa, arranca, cerca improbabili semplificazioni, come nella neuropsicoanalisi, perché facciamo fatica a immaginare psiche e corpo come (quasi) la stessa “cosa”. A pensare che la loro è una identità disidentica.
Insomma, facciamo proprio fatica a immaginare che stiamo solo declinando in modo diverso un evento che accade.
Tutto qui.

Perché mettere insieme due lingue, la medica, che parla di universale, e la psicoanalitica, che parla di singolare, individuale, nella cura.

Un esempio dalla fisiologia, il sonno e il sogno

Pensiamo ai cambiamenti fisici, letti dalla medicina, del sonno paradossale o sonno Rem.
Per esempio, alla forte caduta di tono muscolare per cui, quando stiamo sognando, nessuno di noi può fuggire, perché diventiamo motoriamente impotenti.
Non siamo in grado di alzarci dal letto e andarcene, a meno di non essere sonnambuli.

Proviamo adesso a mettere insieme il dato universale dell’ipotonia (la caduta di tono) e quei piccoli, ricorrenti sogni d’angoscia che tutti facciamo e in cui ci sentiamo cadere giù, come se scivolassimo stranamente giù, da un gradino improvviso. E ci sembra di farlo proprio, quel salto, o addirittura ci vediamo e sentiamo cadere nel vuoto di un precipizio.

A questo punto non possiamo più separare il fatto letto dalla medicina e tradizionalmente definito fisico, la caduta di tono muscolare, con le sue ripercussioni a livello sensoriale… dalle angosce oniriche specifiche.
Non possiamo cioè separare il dato universale, dal dato singolare, individuale, che è il contenuto specifico di quelle angosce oniriche, ogni volta e in ogni persona, diverse, lette dalla psicoanalisi.

Universale e singolare possono essere sintetizzati a patto di avere un’idea chiara del particolare, cioè della parte che in questo processo ha il nostro tempo, degli strumenti apparati o dispositivi che oggi mediano tra parola e cosa, o va da sé tra mente e corpo.

Mi sembra che interpretare transferalmente durante un trattamento psicoanalitico il vissuto di caduta-perdita presente nel contenuto onirico di certi sogni d’angoscia, senza tener conto dei dati chiamati ‘biologici’ (l’universale caduta di tono muscolare), manchi di qualcosa, sia un’azione per così dire monca, non corretta.

Riunire questo tipo di letture differenti potrebbe anche essere un modo di porsi in un ascolto diverso aprendosi ad altri vertici osservativi, senza assumerne necessariamente uno come più vero. Potrebbe essere un modo per non cadere, noi analisti, e per non far cadere i pazienti, nella solitudine di un pensiero precostituito centrato unicamente sul soggettivo e l’Inter personale, e nella megalomania che spesso ne deriva. Potrebbe essere un modo per introdurre uno scarto improvviso, una decontestualizzazione inattesa, e far provare al paziente lo stupore dell’attraversamento di una differenza di livello (logico)…

Cerchiamo allora di metterli insieme, questi due dati, tenendo ben presente che stiamo parlando di equivalenze e non di corrispondenze tra enti.

Come?

Immaginiamo che le impressioni sensoriali connesse alla caduta del tono muscolare scorrano in un continuum, e perciò non si possono staccare, con le immagini oniriche di caduta-salto, con i loro vissuti emotivo-affettivi, diversi in ogni sogno e in ogni sognatore.

Oppure, immaginiamo le immagini ‘mentali’ e i loro vissuti affettivi come un ‘internarsi’ dei dati ‘corporei’ (le impressioni sensoriali), e i dati corporei come un ‘esternarsi’ dei ‘mentali’.
Proviamo adesso a seguirli così, questi dati, a pensarli proprio nella loro reciprocità e specularità continue, come su un nastro di Möbius: le sensazioni legate alla caduta del tono muscolare, internandosi, si trasformano negli affetti e nelle immagini di caduta/perdita, i quali, esternandosi, si trasformano nuovamente nelle sensazioni 'fisiche'.  
Come su un nastro che scorrendo si arrotola per poi srotolarsi e riarrotolarsi,
continuamente.

Ricordiamo sempre che mente e corpo, interno e esterno, non sono due cose in sė reali, due cose per così dire già costituite, le quali, dopo la presunta separazione, vanno riunite in qualche strano modo e comunque si ovvi alla divisione, alla loro realtà (indivisibile) ovviamente non si arriva mai!

Che cosa è bene “sapere”
(liberamente tratto da Carlo Sini, Inizio, Jaca Book, 2016)

Aver trascritto, tradotto nei vari linguaggi del sapere le relazioni viventi delle pratiche di vita […], è un fatto grandioso, di sicuro il più rilevante nel corso della storia della vita sul pianeta che abitiamo.

Esso lo è per la grandiosità incommensurabile delle conseguenze che ne derivano sul piano del poter fare umano coltivato in base al suo poter sapere; ma lo è anche, e forse vieppiù, per i pericoli ai quali esso espone, sia il vivente umano, sia tutti i viventi.

Abbiamo visto che proprio il ridurre la vita a una somma esterna (e pure immensa) di dettagli, è il primo, decisivo, fatale passo del sapere e di ogni sapere.
È la sua grandezza ed è il suo limite.
Bisognerà decidersi a saperlo.

Autore: Dott.ssa Claudia Peregrini
Tel: 00393397469709
E-Mail: c_peregrini@yahoo.it
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