MALATTIE ORGANICHE - PSICHICHE
Abstract
Perché continuiamo a distinguere le malattie alla vecchia maniera, in fisiche e psichiche? Pensare così, in termini dualistici, influenza in modo scorretto ogni diagnosi e cura.
Nel tempo dell’abuso dei farmaci, è di importanza fondamentale pensare a un discorso diverso, non in senso iper-specialistico, sulle MALATTIE, basato sul cambiamento di certi presupposti e modalità cognitive (per esempio, perché abbiamo bisogno di continuare a distinguere le malattie alla vecchia maniera, in fisiche e psichiche?)
Prima di tutto, per cercare di capire la patologia umana un po’ meglio e poi per impostare un tipo di prevenzione e cura che tengano realmente conto non solo dei meccanismi, ma delle situazioni esistenziali, cioè del contesto in cui si fa diagnosi ed esperienza di una data patologia.
Il presupposto è che ogni concezione dualistica, anche quando crediamo di aver trovato gli anelli di congiunzione (correlazioni) tra mentale e corporeo, non può che influenzare in modo scorretto l’inquadramento diagnostico e le cure.
Questo nostro discorso non si fa in una volta sola: dopo essersi messo in moto (vedi LinkedIn, 2019) ha dovuto interrompersi per cause di forza maggiore.
Oggi riprende. Questa volta, vorremmo proprio andare avanti.
Perché, con presupposti diversi, si modificano diagnosi e cura?
Una Premessa
Crediamo che nella mente di ognuno di noi vi sia abbastanza saggezza da assicurare qualche supporto nella scoperta della verità, che, prima di tutto, non è mai assoluta, ma relativa. Relativa perché sempre in relazione ad altro, mai assoluta “in sé”, mutevole, perché ovviamente cerca e dice le cose come stanno, ma siccome le cose non stanno mai immobili, uguali a se stesse, mutano in continuazione, questa verità è sempre provvisoria.
Cercare, in questo senso, “cos’è la realtà”, allontanarsi da automatismi nel pensare, dalle verità-feticcio, per entrare in un processo di reale ingranamento lontano dai luoghi comuni, dagli abituali modi di ragionare, è certamente faticoso. È, infatti, un processo costeggiato da molte crisi, da “bonacce”, e da cambiamenti radicali, e quindi scomodi, di prospettiva.
*Il fatto, per esempio, di rendersi conto che tutta la scienza umana e la sua ricerca (e la psicoanalisi, e la psicosomatica…) sono arroccate su una visione che rimane assolutamente dualistica, è un primo passo non da poco. Rendersi, poi, conto che noi siamo in cammino non in una realtà già fatta, fuori di noi, - perché la realtà è un insieme di eventi di cui siamo parte e che, al contempo, creiamo, un processo insomma che “si fa” con noi-, è un secondo passo importante.
La verità, da questo punto di vista, altro non è che la realtà in continuo cambiamento, diremmo, “in cammino”.
Quando indaghiamo con questi presupposti la realtà, scopriamo che verità e realtà sono due facce della stessa medaglia. E questo sarebbe il terzo passo.*
(*Liberamente tratto da Inizio di Carlo Sini, ed. Jaca Book, 2016).
Questo discorso nasce da una conversazione a tre: Claudia Peregrini, (medico e psicoanalista), Andrea Bocchiola (filosofo e psicoanalista) e Marco Ramella (medico e psicoanalista).
Un esempio
Partiamo da un esempio della patologia umana noto a tutti: l’Autismo, un disturbo generalizzato dello sviluppo che si manifesta molto presto nel corso della vita, con relazioni interpersonali e un apprendimento basale delle competenze sociali drammaticamente ostacolati.
È uno dei campi in cui la ricerca (a partire da quella su base biologica) è in forte e rapidissima espansione.
Sarebbe, intanto, meglio definirli “Autismi” al plurale, data l’enorme quantità di condizioni presenti in realtà molto differenti tra loro. Meglio ancora, “Spettro autistico”.
*Il pensiero scientifico recente
(*liberamente tratto da una intervista a Francesco Barale, psichiatra e psicoanalista)
Gli “autismi” sono considerati, dal tumultuoso e ricchissimo campo delle neuroscienze, come condizioni che esprimono una atipia del neuro sviluppo, intesa sia come assetti atipici del funzionamento di specifiche aree cerebrali, sia come assetti atipici del funzionamento coerente di diversi distretti cerebrali.
Queste atipie a loro volta si radicano in altre atipie, dei processi di formazione delle sinapsi (giunzioni neuronali) e di organizzazione e riorganizzazione delle reti cerebrali databili ai primissimi mesi di gravidanza.
Le radici dell’autismo sarebbero dunque molto antiche, quasi originarie.
Teniamo conto che si sta ragionando in termini di sistemi dinamici complessi dove i movimenti di equilibrio e disequilibrio fra fattori di rischio e protezione di varia natura (a partire da quelli biologici) si intersecano in modo non “lineare”.
L’eziopatogenesi (le cause), nei sistemi complessi, non è mai semplice, diretta, come
causa-effetto, ma multipla e appunto complessa.
Queste sono le conclusioni scientifiche attuali
Rivediamo i concetti e le parole del discorso scientifico frutto di una gran mole di ricerche
Ovviamente, a questo punto delle ricerche, non si può più ricorrere a improbabili “psicogenesi” per una condizione come l’Autismo, come quando si parlava di cause legate a una “madre frigorifero” o, addirittura, a certe sue fantasie nei primi mesi di gravidanza, insomma a relazioni sbagliate, un po’ come se si trattasse di un’unica grande causa.
Una prima osservazione
Una psicogenesi rozza e semplicistica come questa giustamente è del tutto tramontata, se si escludono piccoli gruppi lontani dalla comunità scientifica internazionale, ma il problema psichico/fisico, posto così, è per lo meno fuorviante.
Pur avendo acquisito conoscenze scientifiche preziose, gli scienziati, in questo modo, non riescono a centrare la questione, restando prigionieri del vecchio dualismo mente-corpo, cioè nel mondo dell’aut aut, ossia la dicotomia tra mondi organici e mondi psichici. Questo modo di ragionare, inoltre, reintroduce, nonostante la ‘complessità’ a cui allude, la vecchia nozione di causa, o mentale, o organica.
Una seconda osservazione
Non è più concepibile sostenere che una malattia (definita erroneamente come solo mentale) abbia o non abbia esclusivamente una spiegazione organica, o che una malattia (definita come organica) abbia o non abbia esclusivamente una spiegazione mentale.
E nemmeno si può risolvere il problema utilizzando i sistemi dinamici complessi per spiegare una malattia. Aiutano solo a ingarbugliare la faccenda, non a “risolverla”, anche perché l’intera idea di causa andrebbe decisamente ripensata.
Vero invece
Daccapo
Se, da un lato, si è scoperto che una certa parte dello spettro autistico è legato a qualcosa di fisico, cioè a determinate atipie del neurosviluppo e si è così concluso che le cause non sarebbero psichiche. Dall’altro, abbiamo altresì introdotto il concetto di correlati mentali, come tentativo di uscire dal problema, mostrando come tutto sia psichico e fisico al contempo.
La verità però, secondo noi, è altrove.
Non incontriamo, infatti, le atipie del neurosviluppo come cose in sé, staccate da noi, in modo da poter affermare che si tratta di una malattia fisica e non psichica.
Roba fisica, non psichica!
È vero invece che i ricercatori si sono dotati di strumenti nuovi e con questo anche della capacità, sempre più sofisticata, di lettura del cosiddetto mondo “organico”, in questo caso il mondo neurologico. È un problema di lettura, appunto.
Quello che abbiamo potuto vedere, conoscere, attraverso strumenti nuovi, specifici, eventi, dinamiche, che prima consegnavamo al mondo cosiddetto astratto (psichico?) , perché non potevamo vederli, individuarli, non sono, come già detto, cose in sé, al di fuori di noi.
La nuova realtà (le atipie) che ci è apparsa così, non è una verità assoluta, trovata una volta per tutte, ma è una verità strettamente in relazione (quindi, relativa) agli strumenti utilizzati, alle lingue specifiche, al contesto storico, alle pratiche utilizzate (come le chiama Carlo Sini), che tutte insieme concorrono a produrre un effetto di verità.
Questo non sta a significare che la realtà non esiste. Vuol dire che esiste, si palesa a noi, solo colta attraverso i nostri strumenti e all’interno dei nostri modelli teorici e dei nostri linguaggi specifici.
Questo modo di pensare potrebbe sembrare scontato (la scoperta dell’acqua calda!), ma non lo è. Invece è un modo di pensare che cambia tutto. Prima di tutto, il tipo di ricerca stessa.
La filosofia
Quando Sini dice che le attuali neuroscienze sono così efficienti e anzi straordinarie in molte loro operazioni, ma, al contempo, quando parlano del SENSO del loro lavoro, nel loro inconsapevole dualismo cartesiano, sono un campo sterminato di esempi di idiozie a stento immaginabili, ci fa capire che la ricerca e le scoperte trattate come dati assoluti, staccati dalla relazione fondamentale con il loro contesto, diventano una sorta di banalità superstiziosa. Quando si dice per esempio che certe scoperte sono l’approdo definitivo alla verità e che arriverà il momento in cui l’artificioso edificio della psicoanalisi si sgretolerà sotto le valanghe dei risultati neuroscientifici…ecco, si rimane ne campo della pura, ottusa superstizione.
Ripensiamo appunto a tutto il discorso sulle atipie dei mondo neuronale come cause (pur in senso complesso) dell’Autismo!
Le analogie con la Fisica Attuale
Questo pensiero trova riscontro nella fisica quantistica, come ad esempio in Helgoland, ed. Adelphi, 2020, di Carlo Rovelli, fisico e divulgatore. Egli infatti afferma che si è scoperto che il reale non può esistere fermo di fronte a noi. Non sono solo i limiti della nostra percezione e delle nostre conoscenze a darci una visione parziale delle cose, ma sono le cose stesse che si modificano perché agiscono costantemente le une sulle altre.
Il mondo che appare nello sguardo della fisica quantistica, spiega Rovelli, è trasformato dall'insieme di relazioni che le cose, dall'infinitamente piccolo a ogni aspetto del reale, hanno le une sulle altre. Non ci sono solo i fatti o le idee, ma anche il sentire i fatti e le idee, la materia è in relazione con la coscienza. Tutto è in relazione a.
Noi, ad esempio, non siamo solo il nostro sentire, ma anche il sentire degli altri: genitori, figli, amici, innamorati, siamo cioè anche in relazione ad altro da noi. Per cui questa lettura della realtà genera una rivoluzione che investe anche l'idea che abbiamo di noi stessi.
Le cose non sono qualcos’altro da noi, di natura diversa.
I pianeti del nostro sistema orbitano intorno al Sole, la forza gravitazionale è l'attrazione esercitata dai corpi celesti (così come si attraggono e respingono in diverse orbite i corpi umani). La fittissima rete di modificazioni determina, come insegna la relatività generale di Einstein, lo spazio e il tempo. Spazio e tempo diventano proprio le forme delle relazioni che le “cose” hanno tra loro.
Il reale non è l'altrove del nostro sentire, al contrario, è questa costante
modificazione.
Pare, da questa prospettiva, che la speranza settecentesca di una realtà non modificata da chi la interpreta, fosse una proiezione ottimistica, dettata dal malessere causato dl vivere nell’incertezza. La realtà, purtroppo però, non ci sta di fronte, essa è il costante movimento di cui siamo parte, il pullulare di scambi, i salti di elettroni, le sovrapposizioni e i mondi alternativi.
Il Nobel della fisica Niels Bohr ribalta addirittura l’idea tradizionale che la fisica si occupi di materia/energia intesa in qualche modo come sostanza
Nel senso che la fisica non si prefiggerebbe affatto lo scopo di trovare come è la natura, ma ciò che possiamo dire della natura.
Il discorso si fa squisitamente epistemologico, non si indaga più una realtà, pur fatta di relazioni pure, ma posta fuori di noi.
Adesso torniamo al problema di fondo
L’eterno problema mente corpo
Perché il problema mente corpo, il famoso Mind Body problem, detto MBP, accompagna l’intero cammino del pensiero d’Occidente? Perché è un tema sterminato che incomincia dal rapporto dell’anima col corpo, un nodo cruciale che rimanda a una serie infinita di interrogativi di fondamentale importanza situati ben al di là della relazione mente corpo.
Inoltre, la questione di fondo del problema nessuno l’ha mai risolta. Ci hanno provato in molti.
Gli avvenimenti mentali, ipotizza qualcuno, possono essere solo qualcosa che avviene dentro di noi, nel nostro corpo, o per lo meno in stretta connessione con gli avvenimenti corporei. Qualcun altro sostiene che corpo e mente sarebbero identici, avrebbero la stessa sostanza, solo l’apparenza sarebbe diversa. Oppure, al contrario, i due processi, gli organici e i mentali, sarebbero totalmente differenti, anche se avvengono, tutto il tempo, insieme.
Ci si scontra così con un mare di ipotesi che si rincorrono senza permetterci di arrivare mai a una soluzione.
Consideriamo l’ipotesi mainstream oggi, il cosiddetto monismo ontologico con dualismo conoscitivo: i fenomeni corporei e mentali sarebbero distinti solo da un punto di vista concettuale, nel pensiero e nella parola, perché li troviamo sempre assieme nella realtà esistente, proprio come se facessero parte di un’antica unità (l’unità corpo-mente, con il trattino).
A pensarci bene, cos’è quest’unita?
Dov’è mai questo presunto oggetto unico che il pensiero occidentale avrebbe diviso in due?
Cosa significa?
Si dice che è impensabile per la mente umana (?)
Inoltre, supposto che riuscissimo a trovare sul serio la reale corrispondenza tra fenomeni mentali e corporei, di quale corrispondenza si tratta? Perché sappiamo bene che la relazione tra uno stato fisico e uno stato psichico non é né costante, né semplice.
Indagando i legami tra mente e corpo, anche se si continua a dire che la ricerca è superata, obsoleta, in realtà ci si trova sempre davanti tanta confusione. In letteratura, da una parte si distingue, basando la mente sul corpo e viceversa, dall’altra si cerca di ovviare alla distinzione ponendo psiche e corpo all’interno della complessità (intesa come ridda di direzioni caotiche e di causalità multiple, anche retroattive).
Con questi presupposti sembra che il nostro pensiero continui a sbattere tra mai finiti dualismi, che rimandano a mai finiti monismi, e viceversa.
Il fatto di dover scegliere se qualcosa, una malattia per esempio, è fisica o psichica o psicofisica (tutta la Psicosomatica) attiene a un falso problema.
Ripetiamo
Non è mai una questione tutto-o-niente, fisico o psichico (per quanto visti come correlati secondo i sistemi dinamici complessi), di macro o micro, di concreto o astratto.
È semplicemente una questione che possiamo definire, in un rimando continuo, psichica e fisica e viceversa, fisica e psichica, micro e macro e viceversa, dipende solo dal vertice o punto di osservazione da cui ci poniamo.
Spostiamoci
Per leggere la “realtà” guardiamo il nastro di Möbius, qui sotto, in giallo e arancione.
Se di primo acchito può sembrare che il nastro mostri due facce (nel nostro caso le chiamiamo mente corpo), come dire, a scissione avvenuta, a ben guardarlo non si tratta affatto di due facce, ma di un internarsi e esternarsi continuo di un nastro in perenne movimento. Di un piegarsi, arrotolarsi e srotolarsi. che crea un dentro e un fuori.
Provenienza e destinazione non esistono: la piega si ripiega sempre su se stessa, non procede oltre, ma torna su di sé. La psiche diventa corpo e il corpo, psiche.
Lo si vede bene nella clinica psicoanalitica.
Noi analisti siamo continuamente in bilico tra “mentale” e “organico”. Quando scivoliamo lungo la faccia psichica, incontriamo sempre il corpo, e viceversa.
Allora, cos’è reale?
Anche se continuassimo a usare il vecchio dualismo, dividendo l’astratto dal concreto, il soggetto dall’oggetto, noi dalla realtà fuori di noi e così via, dovremmo comunque ammettere a questo punto che sono proprio una certa cultura e un certo linguaggio (dualistico) a portarci a credere che sia reale solo ciò che in qualche modo cade sotto i cinque sensi e a indurci ad allucinare una sorta di scissione profonda tra il cosiddetto mondo materiale e il mondo astratto. Le malattie sarebbero, da questo punto di vista, fisiche se si possono vedere in qualche modo e misurare, psichiche se sono invisibili.
Ma anche questa è una bolla di sapone, una trappola:
La presenza o l’assenza di quella che crediamo sia ‘materia’ dipende, infatti, dal ‘livello’, (o meglio dal momento di scorrimento del nastro di Möbius), al quale una ‘struttura’, un ‘sistema’, vengono osservati e dagli strumenti con cui li si osservano.
Noi, fuori da ogni forma di dualismo radicale, tornando all’Autismo, ripetiamo
Una parte dello spettro autistico è legata a qualcosa di fisico, non perché abbiamo trovato atipie nella realtà neuronale indagata, alterazioni visibili, immutabili, ma perché ci siamo dotati di capacità molto sofisticate di lettura del mondo neuronale, che prima non avevamo.
Questa nuova lettura oggi ci dice questo.
Domani?
È un cambiamento di prospettiva enorme.
E noi siamo per così dire incarnati nel processo di conoscenza continuamente mutevole, che si attua con noi.
Perché continuiamo a insistere nel dualismo forte?
[* Aggiunta nostra]
Forse ha ragione il matematico Höfstadter quando dice che noi tracciamo confini concettuali attorno alle entità [ai modi di pensare] che percepiamo con maggior facilità, e nel far questo ci ritagliamo su misura quella che ci sembra essere la realtà.
[Come fosse davvero una realtà fuori di noi.]*
Siamo, cioè, piccoli miracoli di autoreferenza, crediamo in “cose” che poi si sgretolano appena ci mettiamo a esaminarle da vicino e sul serio, ma, quando non le indaghiamo, tornano a essere assolutamente vere e reali!
Oggi possiamo indagare sempre di più, con un effetto di verità quasi “assoluto”
La meraviglia dei nuovi strumenti
Possiamo per esempio osservare il processo di infezione, come quello provocato dal nuovo coronavirus, grazie alla scansione in 3D di un organo o dell'intero corpo umano. È la rivoluzione scientifica resa possibile grazie alla nuova sorgente di raggi X più brillante mai ottenuta, presso il super microscopio europeo Esrf (European Synchrotron Radiation Facility) di Grenoble (Francia) basato sulla luce di sincrotrone.
Ideata da un fisico italiano, la nuova sorgente che ha reso il supermicroscopio europeo il più potente del mondo, si chiama Esrf-Extremely Brilliant Source (Esrf-Ebs).
Grazie ad essa la macchina è adesso in grado di generare fasci di raggi X 100 volte più luminosi rispetto a quelli che finora era possibile ottenere…
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Inizio conversazione sull'articolo
Intervento Dott. Marco Ramella
Il lavoro, definito dallo psicoanalista Racamier "incerto", della cura della sofferenza psichica, è sempre alle prese con la necessità di conciliare un sapere, un modello teorico, con la pratica terapeutica, con la cura sul "campo".
Come applicare una conoscenza teorica alla pratica clinica, è il passaggio necessario e fondamentale di ogni modello teorico.
In termini più astratti, si tratta di pensare come mettere in rapporto il sapere alla vita e come inevitabilmente (e auspicabilmente) la vita modifichi il sapere. Meglio ancora, come il sapere diventi vita, la alimenti e a volte la restituisca. Nei compiti dello "psicoanalista senza divano" Racamiier aveva messo al livello più alto la capacità mai conclusa e sempre in divenire di un passaggio continuo dalla teoria alla clinica e dalla clinica alla teoria in un movimento inesausto di contaminazione reciproca e feconda che poteve mettere in atto un sapere in continuo, che non diviene mai monolitico e sostanzializzato, mai ideologico.
In questo senso, a partire dal modello teorico della collega Peregrini, vi propongo alcune considerazioni che prendono spunto dal mio lavoro di psichiatra/psicoanalista nel mio studio privato e nelle istituzioni psichiatriche.
Nella mia attività di psichiatra, mi è spesso capitato di imbattermi in uno "strano" fenomeno: i pazienti che venivano inviati da colleghi psicoterapeuti e/o psicoanalisti per l'impostazione di una terapia psicofarmacologica e avevano alle spalle un buon periodo di psicoterapia e/o di analisi, accettavano di buon grado, fiduciosi e spesso con migliori risultati terapeutici, la terapia psicofarmacologica.
Come se il farmaco venisse accolto dal paziente nell'ambito di una dimensione transferale positiva e percepito come variante chimica non contrapposta, ma, anzi, complementare all'interpretazione.
Una sorta di "interpretazione biochimica".
Il farmaco risultava cioè più efficace rispetto ai pazienti che non avevano alle spalle un percorso psicoterapeutico e spesso percepiscono il farmaco con un connotato "tossico", con il rischio della dipendenza di cui diffidare.
Mi sono allora molto interrogato sul concetto di resistenza psicofarmacologica.
Dove è l'ostacolo che impedisce al paziente di avvalersi positivamente del farmaco?
Nel gene? nello psichico? (il timore di un affidarsi fiducioso alla cura farmacolocica o psicologica che sia).
Forse a questo punto potremmo immaginare che ci imbattiamo in una indecifrabile e indecidibile sovrapposizione tra il genetico e lo psicologico? L'epigenetica non va forse nella direzione di questa sovrapposizione?
Prendiamo un altro esempio: il Disturbo Bipolare, una della diagnosi attualmente più "in voga" Perche a volte la somministrazione di stabilizzatori dell'umore tipo litio o altro è efficace e a volte non lo è? Ci imbattiamo sempre nella resistenza organica al farmaco, oppure dobbiamo tenere in considerazione un aspetto personologico di determinati pazienti legati ad un ideale di autosufficienza che ostacola la funzionalità del farmaci?
Se, come diceva Merleau Ponty, "la verità muta", dobbiamo forse immaginare che, nell'ambito del modello proposto dalla collega, ogni incontro del paziente, e la modalità di tale incontro, ha un effetto retroattivo sull'origine e modifica il percorso terapeutico (In altri ambiti, non è questo il modello relazionale della fisica proposto da Rovelli?)
Dovremmo forse chiederci come l'evento dell’incontro intervenga a modificare la verità delle origini, o a costituirne una eterogenesi, e a introdurre dunque una variabilità del percorso terapeutico che, prescindendo da naturalismi e ideologismi, si muove proprio come su un nastro di Möebius nel somatico e nello psichico?…
Ora passo ad alcune considerazioni sulla cura della sofferenza psichica nelle istituzioni. Chi ha lavorato a lungo nelle istituzioni psichiatriche sa bene come i modelli teorici sottostanti alla formazione dei curanti determinano spesso meccanismi scissionali dalle conseguenze dirompenti, le quali, come scrive Comelli, inducono a chiedersi "chi cura le istituzioni che curano". Spesso tali scissioni sono determinate dalla inconciliabilità di due miti eziopatogenetici antitetici, quello dell'organo genesi e quello della psicogenesi, che, appunto, come miti, necessitano di essere decostruiti o forse semplicemente sfatati.
L’idea di una "sostanza" immutabile, sia essa organica o psichica, che spieghi e dia conto della complessità dei fenomeni e dei sintomi non è forse il retaggio di una concezione "metafisica" della scienza che ha sorretto il pensiero occidentale per secoli?
Non è forse una evoluzione di tale concezione il modello dei correlati organici delle istanze psichiche? Siamo sempre nel modello sostanzialistico Aristotelico!
La prospettiva teorica aperta da Peregrini sembra escludere ogni prospettiva naturalistica e/o psicogenetista.
In questo modello l'elemento di verità non è l'assoluto della sostanza immutabile, ma l'incontro come evento che produce senso, rimanendo nell'ambito del quale, nulla è escluso nel percorso terapeutico, che sia sul versante psichico o su quello somatico, che sia farmaco o parola. Dove addirittura, e in una dimensione solo apparentemente paradossale, il farmaco diventa psichico e la parola, chimica.
Il corporeo e il mentale si intrecciano e si incontrano nell'eterogenesi dei sintomi e entrambi sono inclusi nella costruzione di un percorso che fa emergere una verità clinica che è, allo stesso tempo, singolare, perchè appartiene a quel paziente e solo a lui, e universale, perché universale è la necessità della natura umana, di uno scambio e un incontro che siano produttori di senso e verità.
Il modello del nastro di Möbius proposto da Peregrini, esprime bene il senso dell'eterogenesi e dell' indecidibilità a priori tra psichico e somatico nell'origine dei fenomeni sintomatologici.
Se infatti percorriamo il nastro sul versante interno, ci ritroviamo inevitabilmente su quello esterno, e viceversa. Se percorriamo lo psichico, ci imbattiamo, nella clinica, nel somatico, e viceversa.
Questo modello di Peregrini cerca soprattutto di uscire dall'annoso dilemma tra psichico e somatico e conduce, senza cadere in superficiali eclettismi, a una pratica clinica aperta all'incontro, in cui finalmente etica scienza soggettività e corporeità si incontrano al di la di ogni ideologismo.
Intervento Dott. Andrea Bocchiola
In attesa di intervenire in modo più articolato sulle riflessioni inaugurate da Claudia, vorrei provare ad organizzare un promemoria relativo agli aspetti più critici della riflessione sul mind-body problem, anche a costo di una certa ermeticità filosofica, che proverò a dipanare in interventi successivi.
1. Sulla autocontraddittorietà del mind-body problem.
In un’ ottica e in un orizzonte categoriale dualista è impossibile reperire il mitico anello di congiunzione tra i due. E’ un problema banalmente logico. Muovendo dalla distinzione aprioristica del corpo e della mente e non mettendola in discussione, evitando cioè di indagarne genealogicamente l’origine, partendo insomma da due oggetti distinti, e di cui si assume la distinzione, non è possibile scovare un anello di congiunzione in cui il dualismo non si trovi riprodotto, secondo un regresso all’infinito. In altre parole, in ogni anello di congiunzione che riesco a scovare, dovrò pur sempre spiegare come le due facce dello psichico e del corporeo stiano insieme.
Corollario di questa semplice osservazione è che tutto il dibattito sul mente-corpo, nella misura in cui non muove da una decostruzione genealogica della propria questione — ossia da una presa di coscienza di come si siano prodotti quei concetti che prendono il nome del corpo e della mente e del gesto che ponendoli ha istituito il problema del loro rapporto — è condannato all’irrilevanza e a una eterna petitio principi.
2. Sulla autocontradditorietà di ogni dualismo e monismo (e sulla loro identità di fondo).
Andando subito al punto diciamo che, dal punto di vista della logica concettuale, dualismo e monismo sono e dicono lo stesso. Come aveva già osservato Platone, gli amici della terra (materialisti) e quelli del cielo (idealisti), dicono e fanno la stessa cosa: riducono l’esistente all’uno. I due avversari agiscono a specchio, sono immagini speculari dello stesso gesto: partono dal due (la mente e il corpo) e si ritrovano nell’uno (la mente epifenomeno del corpo o il corpo espressione della mente). Salvo poi dover tornare al due (la mente e il corpo), vista l’impossibilità di spiegare come dal corpo salti fuori la mente o dalla mente il corpo.
3. Sul problema del realismo.
Nel dibattito corrente si assume apoditticamente che esistano dei corpi, ovviamente biologici e delle menti, ovviamente psicologiche. Questi corpi e queste menti esisterebbero realmente, sarebbero cose del mondo, degli enti, in sé e per sé, del tutto indipendenti dalle pratiche di scrittura scientifiche che li indagano (grossolanamente, neuroscienze e psicologia).
Menti e corpi sarebbero insomma dei fatti.
Il dibattito su mente e corpo è dunque inficiato da un secondo dualismo, quello che oppone le pratiche di scrittura scientifiche dai suoi oggetti corrispondenti. E correlato di questa opposizione è il modello ingenuo di verità come corrispondenza, ossia come adeguazione della parola (la dottrina scientifica) alla cosa (realtà).
E qui ritroviamo i problemi di cui sopra. Come stanno insieme parola e cosa è problema identico al come stanno insieme psiche e corpo. Se assumiamo la loro indipendenza, bruciamo i ponti che vorremmo gettare tra di loro. Galileo ne aveva avuto una intuizione quando disse che nel pensiero scientifico si trova solo quello che già si sa (altrimenti la costruzione sperimentale non sarebbe già scientifica) e in questo modo aveva avuto una intuizione sul legami imprescindibili di teoria e realtà; ma questo non nel senso banale per cui la presenza dell’osservatore disturba o deforma a prescindere la comprensione dell’oggetto, bensì nel senso che ogni pratica di scrittura produce il proprio oggetto a propria immagine e somiglianza. In effetti, il nocciolo oscuro della verità come adeguatamente dalla parola alla cosa, è che se la cosa non ha già la forma della parola, quest’ultima non può sapere nulla della cosa. In altre termini o la cosa ha la forma della parola o non ne possiamo dire niente. Al contrario, delle cose del mondo possiamo dire solo attraverso il gioco delle pratiche di scrittura che le istituiscono, che, alla lettera, le inventano. Il corpo come corpo biologico non è una cosa reale, è un oggetto epistemologico che ha la forma e la natura dello sviluppo delle pratiche scientifiche che lo istituiscono. Lo stesso per la psiche e la psicologia. Si tratta di oggetti epistemici, frutto di una complessa genealogia, che andrebbe ricostruita per evitare di esserne travolti e prendere lucciole per lanterne.
Del resto non serve guardare tanto lontano. Nessuno di noi è un corpo biologico o una mente psicologica, non siamo una mente senza il nostro corpo o un corpo senza la nostra mente, non siamo semplicemente nessuna delle due cose, tantomeno costrette alla forma biologica o a quella psicologica. Mente e corpo non sono parole adeguate a dire quello che nella nostra esperienza personale, singolare, siamo. Sono effetti di scrittura che si sovrappongono alla nostra esperienza di vita, esattamente come l’ecografia del nostro ventre non è una fotografia del nostro interno (e infatti i matters of fact della medicina obiettiva devono essere interpretati).
4. Sull’effetto retroattivo della “verità”
Nel momento in cui abbiamo a disposizione le “verità apodittiche” del corpo biologico (che procede da interminabili trasformazioni della scrittura scientifica del mondo) e della mente psicologica (idem), siamo irresistibilmente portati a proiettarlo all’origine, alle nostre spalle e scambiarlo per una cosa reale e non per quello che è, ossia un effetto, peraltro assai raffinato, delle pratiche di scrittura scientifiche che li hanno prodotti. Solo che, così facendo, semplicemente stiamo mettendo i buoi dietro il carro, o più precisamente ciò che viene dopo in un prima frainteso a sostanza.
Quando Aristotele organizzò l’organon delle scienze, ciascuna con un suo oggetto specifico, non si trattò di far semplicemente corrispondere un certo tipo di “fatti” del mondo con la corrispondente disciplina. Si trattò piuttosto di “estrarre” dal mondo, dei fenomeni, ciascuno rispondente ai criteri delle tassonomia scientifica. A ciascuna -logia, il suo oggetto specifico, che esiste solo in quanto prodotto della scrittura logica che lo istituisce. Per fare un esempio, la montagna del geologo non è la sostanza prima che costituisce le montagne del mondo, ma è l’esito di un processo di scrittura abduttivo che la istituisce in quanto tale, accanto alle montagne dell’alpigiano o dell’alpinista, e prima ancora degli dei e del loro mito, e così via.
Il punto essenziale è dunque quello di non commettere questo errore, di non subire cioè l’effetto retroattivo della verità, scambiando due oggetti epistemologici per due sostanze (di cui poi dovremmo stabilire le relazioni), come invece sciaguratamente accade nella ricerca neuroscientifica e in quella psicologica.
5. Un problema biopolitico
Neuroscienze e psicologia, vittime dell’effetto retroattivo della verità, corrono un rischio importante: quello di restare irriflessivamente nel circuito concettuale della antropologia metafisica aristotelica, peraltro privata dalle sue parti più complesse e profonde (come la riflessione su atto e potenza, o sulla entelecheia) e di trasformarsi in pratiche disciplinari che costringono la soggettività a quella forma (che essendo assunta irriflessivamente non può nemmeno essere sottoposta a disamina critica). In altre parole neuroscienze e psicologia, inscrivendosi nelle aporie del mind-body problem, dietro la patina e l’allure della invocata scientificità, corrono il rischio di ridursi ad una pratica disciplinare di controllo e sanzione dell’esperienza e della soggettività (quale del resto la psicologia è, almeno dai tempi di Hobbes).
6. Sull’oggetto della psicoanalisi
Penso che si possa essere tutti d’accordo nel ritenere che l’oggetto della psicoanalisi sia l’inconscio, sia rimosso (inconscio dinamico) che forcluso (Reale, nella accezione di Lacan). In altre parole la mente e il corpo non sono oggetto della psicoanalisi. Per due motivi. Perché l’inconscio fondamentalmente e ammesso che questa abbia senso, ne ignora la distinzione, esattamente come il lavoro onirico mette in crisi la distinzione tra parola e cosa, tra segno e significante (e quindi tra corpo e anima). E perché, se l’inconscio è l’oggetto della psicoanalisi, bisogna pur ricordare, anche con l’aiuto del Lacan del Seminario sui quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, che questo non è semplicemente il retrobottega della coscienza, ma l’inciampo che impedisce alla psiche (e alla psicologia) e al cervello (e alle neuroscienze) di estendere il loro dispositivo discorsivo (e discipinare in senso foucaultianio, biopolitico) sui mondi della vita.
A costo di ripetermi, l’oggetto della psicoanalisi, insomma, non è né la mente né il corpo e non rientra nell’antropologia aristotelica (banalizzata) che sorregge lo sforzo di neuroscienze e psicologia. E’ esattamente quell’area che impedisce a neuroscienze e psicologia di chiudere la presa sulla vita, organizzando il soggetto intorno alla grammatica dell’agire di un corpo ordinato dalla medicina e di un’anima sotto controllo ideologico della psicologia. Esattamente come l’ombelico del sogno, nel momento in cui appare, blocca i flussi associativi preconsci di analista e paziente, paralizza il loro processo ermeneutico testuale di interpretazione del sogno e impedisce che l’ordine del discorso finisca con l’assorbire in fieri, l’infinità della vita.
Del resto dovremmo ricordare che è solo grazie all’inciampo dell’inconscio, alla irriducibilità di principio del silenzio, che la parola e il pensiero possono avere senso. Solo infrangendosi contro il limite, l’ordine del senso può avere senso. Infatti, se tutto avesse senso, niente sarebbe più sensato.
7. Inconscio-singolarità.
Se l’inconscio è l’oggetto della psicoanalisi e se questo inconscio non è il retrobottega psicologico della coscienza ma quell’inciampo che in nessun modo è riducibile all’antropologia metafisica delle neuroscienze e della psicologia; se l’inconscio è quella dimensione che interrompe l’ordine dei discorsi, che paralizza il gesto stesso dell’interpretazione e della rappresentazione (e non come suo limite esterno, si badi bene, ma come sua frattura interna, da questo punto di vista l’esempio dell’ombelico del sogno è precisissimo), allora il suo altro nome è quello della singolarità.
Se l’ordine della parola è quello del giudizio, come è nella scrittura alfabetica almeno, se questo ordine assume l’esperienza nel registro dell’universale (dobbiamo ricordare che la parola alfabetica, lungi dal rendere presente la cosa assente, in verità rende assente la cosa presente, trapassandola in vista del suo concetto e del suo significato), allora l’inconscio è il nome di ciò che nell’esperienza resiste a questa operazione, è il nome di ciò che non può essere detto nel giudizio, che sfugge all’elaborazione secondaria impedendole di “dire il tutto” dell’esperienza.
Ci servirebbe, a questo punto, una epistemologia della singolarità, che non può essere con ogni evidenza quella universalistica delle scienze positive, a cui noi analisti sempre più spesso guardiamo, vuoi per ingenuità, vuoi per pregiudizio.
Nota bibliografica.
Questo testo è stato composto per rispondere in tempo reale all’avvio del dibattito inaugurato da Claudia. Al momento della sua redazione chi scrive si trova all’estero e non ha accesso alla propria biblioteca, quindi una vera e propria bibliografia o apparato di citazioni, altrimenti necessario, non era disponibile. Al momento posso solo sottolineare quelli che sono i riferimenti filosofici di fondo, nella ricerca di Carlo Sini sulle pratiche di scrittura e in particolare i suoi La mente e il corpo, La strategia dell’anima, Kinesis, Immagini di verità e molti altri suoi testi. Oltre a Sini, tra i riferimenti essenziali vanno inclusi: J. Lacan, I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, M. Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, P. Gambazzi, L’occhio e il suo inconscio. In questi testi è reperibile, con la dovuta ampiezza argomentativa, ciò a cui le riflessioni spicciole di questo contributo rimandano.
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